Celebrare la Penitenza facendo memoria delle meraviglie di Dio

PENITENZA E MEMORIA DELLE MERAVIGLIE DI DIO
di Marco Ronconi (Teologo e docente)

Il Rituale del sacramento della Penitenza, in vigore dal 1974, stabilisce al n. 43 che il confessore – dopo aver accolto il penitente (n. 42) e prima di ascoltare la confessione dei peccati (n. 44) – è invitato a «leggere o dire a memoria» un testo della Scrittura. Quando l’ho letto ad alta voce durante una lezione di teologia, i presenti sono rimasti esterrefatti: a nessuno di loro era mai capitato. E non sto parlando di cristiani «occasionali» o «non praticanti», ma di una decina di seminaristi e altrettanti laici «impegnati». Il Rituale, inoltre, suggerisce un elenco di 12 testi. Lo stupore è diventato sbalordimento quando gli studenti e le studentesse si sono accorti che tra di essi non c’è il Decalogo (presente solo in appendice, in un elenco di altri 100 testi che, in casi particolari, possono essere adattati allo scopo). Lo ripeto: il Rituale non suggerisce i Dieci Comandamenti tra le letture più utili per accostarsi alla Confessione. Uno degli studenti ha quindi fatto la domanda più banale, ma più difficile: perché quasi tutti i sussidi sulla Penitenza ruotano proprio sui Dieci Comandamenti? Mi spiace, ho confessato, ma non ho una risposta. Posso solo registrare il dato e schierarmi tra coloro che sostengono essere un problema.

Abbiamo quindi iniziato a ragionare. Prepararsi alla Confessione leggendo un testo giuridico crea in quasi tutti la stessa sensazione dell’anticamera del tribunale in cui studiare la propria legittima difesa (invocando se necessario anche la clemenza della corte). Il Rituale, invece, privilegia testi memoriali delle grandi azioni compiute da Dio e/o inviti a riconoscere la bellezza della promessa posta da Lui sulla nostra vita, per tornare a essa laddove i nostri atti l’abbiano tradita. Prima ancora che un reato o una colpa, infatti, i peccati sono mancanze rispetto alla verità: dicono il falso di noi con la nostra complicità; sono trasgressioni in ordine all’amore per cui e di cui siamo stati fatti; sono ferite inferte all’umanità (nostra e di chi ci è vicino): così dice il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1849. E a proposito di quali siano gli atti peccaminosi, «è la parola di Dio che illumina il fedele a conoscere i suoi peccati, lo chiama alla conversione e gli infonde fiducia nella misericordia di Dio» (Rituale della Penitenza, n. 17). Non vorrei sembrare irrispettoso, ma il cuore della Parola di Dio non è tanto la legge, quanto la storia della salvezza.

Mi si passi l’analogia, ma secondo il Rituale, il confessore dovrebbe comportarsi come un buon terapista: di fronte a una relazione ferita, non inizia presentando il manuale del perfetto coniuge invitando il singolo a riconoscere ad alta voce i punti in cui non si è corrisposto. Un buon punto di partenza per curare le ferite di una relazione, invece, è fare memoria: «Vi va di ricordare la prima volta che avete riso insieme? E quell’ostacolo che avete superato con così grande fatica? O quel sogno che avete tramutato in un desiderio comune?». È su quello sfondo che certi atti si mostrano per quello che sono – anche in modo imbarazzante. In modo analogo, il Confessore, per prima cosa, dovrebbe invitare il Penitente a ricordare (ad alta voce!) il giorno in cui Dio ha benedetto il nostro popolo e ci ha scelto senza merito alcuno, quando ci ha rivestito della sua grazia, quando ha scommesso sulla vita di ciascuno di noi il giorno del Battesimo… I nostri atti, infatti, mostrano la loro verità non sullo sfondo di un astratto ideale («non fare», «devi fare»), ma della storia di un desiderio: «Siete scelti da Dio, santi e amati» (Col 3,12). E tornando all’analogia matrimoniale, dato che Dio è un consorte che non mente né tradisce – anche se ha il vizio di non corrispondere alle nostre aspettative – la storia con Lui non può essere diversa da un amore infinito che attende ogni volta di essere realizzato. Da capo, se necessario.

(Da Jesus, febbraio 2020, p. 89)